Racconto di Luigi Ananìa
Quando giunsi con mio padre i contadini del luogo ci parlarono del Podere La Torre come di una collina conosciuta per le vipere, i funghi, l'olio e per il vino profumato. Alla sommità della collina c'era una grande casa colonica in pietra ed intorno una macchia di rovi, ginestre e lecci.
La prima vigna la piantò mio padre nel settantasei, poi nel novanta e nel novantanove io piantai altri ettari cosicché adesso la vigna è di circa cinque ettari e otto e circoscrive la casa a mezzogiorno e a ponente. La casa, abitata al tempo della mezzadria da una famiglia di diciotto persone, comprende le cantine per la lavorazione delle uve e per l'invecchiamento del vino.
Quando io e mio padre arrivammo a Montalcino su "La Torre" circolava una leggenda che narrava che accanto alla casa colonica vi era una torre abitata da una famiglia di contadini. A un certo punto una parte di questa famiglia trovò dell'oro nelle fondamenta della torre e decise di distruggere l'intera costruzione per prendere l'oro e fuggire a Firenze.
Nel millenovecentosettantasei, quando mio padre piantò la prima vigna, Montalcino era ancora una comunità contadina e il Brunello di Montalcino era conosciuto da pochi intenditori. Alla fine degli anni Ottanta i media incominciarono a parlare del vino, fino allora espressione del mondo contadino, come qualcosa di pregiato e fu allora che il Brunello diventò un mito. In quegli anni alcune aziende divennero protagoniste e inserirono i propri vini nel mercato italiano ed estero acquisendo visibilità attraverso le vie del grande circo mediatico.
La mia politica aziendale, condivisa da mio padre, fu di coniugare le tecniche apprese con la laurea in agraria con il sapere di alcuni vecchi contadini che si contraddistinguevano per la passione e per la cura puntuale della vigna e del vino.
La scelta di mantenere il contatto con i contadini fu la chiave per rimanere in relazione con il territorio e per produrre vini tipici che conservavano un legame con la terra d'origine, ossia con la terra di Montalcino e in particolare con la terra del Podere La Torre. In quegli anni di intensa trasformazione le aziende vinicole rischiavano di perdere la relazione con la propria terra e di privilegiare la cantina alla vigna adottando tecniche omologanti in ogni parte d'Italia.
Il legame con il territorio, il terroir, va mantenuto in maniera elastica e dinamica e non rigida e manichea; questo vuol dire che è plausibile che a Montalcino vengano coltivati altri vitigni da quelli già coltivati nella zona ma tenendo sempre in alta considerazione i vitigni autoctoni presenti e i vitigni autoctoni dimenticati nel corso degli anni; questo per una visione ampia dello spazio e del tempo e per un rispetto di ogni singola forma di vita, esistente, esistita e quindi degna di esistere.
L'ultimo vino che ho creato si chiama Ampelio ed è forse il migliore esempio esplicativo di questi miei pensieri poiché proviene da un uvaggio di tre uve autoctone: Alicante (portata dagli spagnoli nel sedicesimo secolo), Ciliegiolo e Sangiovese.
Il nome Ampelio, espressione di una toponomastica contadina in via di estinzione (Ampelio, Saturno, Alisardo, Giocondo, Olmo, ecc.) è in memoria di un vecchio contadino amico che nella cura della vigna muoveva le mani come un artista che coglie all'istante la sintesi fra grazia e necessità.